Tommaso d’Aquino ne era sicuro: non possiamo fuggire dalla nostra natura, per quanto cerchiamo d’“essere diversi” da ciò che siamo, torneremo, sconfitti, al nostro nido interiore. Creati – per farla breve – con lo stampo, siamo tutti uomini, creature di Dio; segnate sono già le nostre strade, vincolate dalle possibilità permesseci da questi corpi imperfetti, scrigni dell’anima. Ed è in quest’ultima che coviamo la nostra natura, natura di uomo, inteso come specie, ma anche di uomo appartenente ad un determinato luogo geografico (il che comporta cultura, lingua, costumi determinati). La prima, lo si è già detto, significa che limpido è il nostro ruolo, e pur essendo esseri dotati di libero arbitrio, rimaniamo totalmente dipendenti dal Creatore. Per quanto riguarda la seconda Tommaso avrebbe detto – o almeno così ci immaginiamo –, utilizzando un linguaggio moderno, che è tutta una questione di genetica (anch’essa dipendente dall’imperscrutabile disegno divino) per la quale, ad esempio, l’europeo (ma ancor meglio l’italiano, o più in profondità il cremonese, e si potrebbe andare avanti), figlio di europei, nato e cresciuto, per casualità, in qualche altro luogo, rimarrà sempre e comunque europeo (italiano, cremonese o paesano che sia): non la lingua, non l’educazione, non il clima fanno l’uomo, bensì l’anima (o in altri termini: i suoi geni). Cioè a dire: sebbene l’educazione ricevuta possa distanziar l’uomo dalle sue origini “genetiche”, ci sarà sempre un qualcosa di questa natura sradicata che emergerà a rivendicar il proprio essere.
Sono idee, queste, che fluttuano tutt’oggi nell’aria di un XXI secolo inoltrato, difficili da estinguere, poiché radicate nella nostra “necessaria” visone provinciale del mondo. Diremo, invero, che la verità non sta né da una parte né dall’altra, né con chi afferma l’esistenza di una natura umana imprescindibile né con chi vede nelle condizioni susseguenti alla nascita il vero e proprio campo di prova per la formazione del nostro essere, e tutto questo anche e soprattutto a prescindere da Dottori della Chiesa come il nostro buon San Tommaso. E tuttavia è proprio la religione, il cattolicesimo in questo caso – la sua speranza, il senso (comodo) che esso solo sa conferire all’esistenza, la sua iconografia e iconologia – il contenuto dell’esempio che qui proponiamo, a mo’ di suggestione, per una visione più ricca e profonda del vincolo che l’essere umano può “contrarre”, e in alcuni casi con esiti straordinari, con altri luoghi (e quindi altre abitudini, lingua, morale, “spirito” o visione del mondo). E se il contenuto è la religione, la forma è la peculiare arte pittorica di El Greco (1541 - 1614), vero nome Dominikos Theotokopoulos, celebre artista greco, appunto, nato da famiglia greca e ortodossa, cresciuto nel suo paese ma emigrato in gioventù verso gli atelier europei tardo-rinascimentali all’inseguimento della sua vena artistica; prima a Venezia (1567), forse allievo del vecchio Tiziano, poi a Roma (1570) e infine a Toledo (1577), cuore e capitale religiosa della Spagna. Seppur considerato ottimo pittore in quel di Toledo, la sua esperienza spagnola fu, almeno in confronto alle sue aspettative, piuttosto “deludente” poiché privata del riconoscimento dei più (soprattutto critici e sovrani: Filippo II commissionò al pittore alcune opere che in seguito il monarca rifiutò di esporre). Ciononostante, una vita da “incompreso” per un uomo che sbeffeggiava Michelangelo e che si sentiva degno di essere comparato ai più famosi artisti dell’epoca, avrebbe incontrato la rivalutazione dei posteri. Si parla spesso, infatti, dell’influenza che l’opera di El Greco ebbe sulla prosa e poesia di Rilke e Kazantakis e degli studi dei critici dell’arte del XX secolo impegnati a restituire al pittore, all’interno della storia dell’arte universale, il ruolo di spicco che non ebbe del tutto riconosciuto ai suoi tempi.
Ma
qui vogliamo ricordare in particolare le riflessioni di uno dei più
importanti filosofi e letterati spagnoli (basco per la precisione), qui
nelle vesti di “esteta letterario”, che vivacizzarono la cultura
castigliana a cavallo tra Otto e Novecento: Miguel de Unamuno. In
alcuni suoi brevi articoli definisce El Greco come colui che più di
tutti riuscì a interiorizzare lo spirito castigliano che si stava
sviluppando tra Cinque e Seicento sapendolo così concretizzare, forse
inconsciamente, in arte visiva, diventando «il rivelatore, coi suoi
pennelli, del nostro naturalismo spiritualista»; più di Velázquez, più
di Cervantes, illustri spagnoli, ma a dir di Unamuno, “universali”, che
attraverso la loro opera (artistica e letteraria) seppero elevarsi al di
sopra del castiglianismo, El Greco vedeva ciò che gli altri non
potevano vedere, e lo vedeva forse proprio per il fatto d’essere
straniero, avvalendosi così d’una “visione dall’alto” e dunque
privilegiata. L’anima castigliana, quella di Don Chisciotte e quella dei
grandi mistici, di Santa Teresa e Giovanni della Croce, ci dice Unamuno
essere anima “spiritualista”, proiettata al Cielo, all’altra vita,
al trionfo dello Spirito. Per il filosofo basco la Spagna di El Greco
non era mai uscita dal Medioevo e, pur condividendo qualche tratto
rinascimentale con altri centri europei, non si fece “contaminare” dal
vivace paganesimo e razionalismo di questi, restando così profondamente
legata al cattolicesimo e al dogma della resurrezione.
Basta osservare opere come il San Mauricio o l’Entierro del Conde de Orgaz,
rivelatrici di uno «spiritualismo concentrato, violento e tormentoso»,
per accorgersi del castiglianismo acquisito da El Greco a contatto con
l’aria toledana. Ad emergere da questi dipinti sono anime tristi e
crogiolanti che, agli occhi di Unamuno, sembrano solo desiderar
emanciparsi dal corpo supplicando vita eterna: San Maurizio fluttua, non
tocca terra, e la luce che lo illumina non è certo luce terrestre,
piuttosto d’incubo o di sogno; gli uomini che presenziano al
seppellimento del Conte Orgaz «sono vicini, contigui, ma non comunicano
tra loro, non formano società. Non si avvicinano l’uno all’altro, li
unisce Dio. Appaiono uniti perché dipendono tutti dalla stessa morte –
la cui espressione è il Conte – e dallo stesso cielo che si apre sopra
loro»; e anche qui la luce è particolarissima, preannunciatrice di
burrasche che si perdono tra realtà e sogno. Ed è questa forte
componente di sogno che fa apparentare ad Unamuno la pittura di El
Greco, ancor più che al Chisciotte, al dramma calderoniano La vida es sueño,
altra opera chiave per avvicinarsi al sentimento castigliano. Il sogno è
quella nube incantata che l’“uomo spirituale” si crea per rendere
vivibile la vita, per credere in una continuazione che sia autentico
riscatto della sofferenza inflitta dal secolo. E così i quadri di El
Greco evocherebbero visioni oniriche nella loro piena naturalità,
giacché seppur sogno sia antitesi di reale, non lo è di naturale;
immagini che sorgono direttamente dall’anima senza passare per il filtro
della ragione impegnata ad adattare al mondo del logico, o perlomeno
del buon senso, ciò che d’irrazionale vive in noi. E cosa sono le forme
allungate dei personaggi di El Greco se non trasfigurazioni del
quotidiano in sogno, della pesantezza della terra in leggerezza dello
spirito? E tuttavia «La naturalità di El Greco, per quanto deformata, la
natura vista e fatta visibile dal suo spirito, è molto più reale del
realismo di convenienza raggiunto dalle formule che soddisfano la
pigrizia della folla». Suo intento fu «eternizzare il momentaneo»
attraverso la valorizzazione dell’impressione – la sua, che è quella del
popolo spagnolo –, motivo per cui Unamuno si azzarda a nominarlo primo
“apostolo” dell’impressionismo.
L’essenziale
per El Greco è dunque dipingere la realtà interiore che è espressione
d’un sentimento comune a tutti i “tragici spagnoli”, i quali, ci dice il
filosofo, vedendosi rappresentati così da vicino, ebbero paura del
proprio riflesso, così famigliare e al tempo stesso estraneo, troppo
vivo e pulsante, sin a vedersi costretti a tacciar l’artista di
stravaganza e bizantinismo. Il fatto è che per Unamuno il bizantinismo
non è altro che «castiglianismo puro», Medioevo in pieno Rinascimento.
Ed
infine i suoi caratteristici colori, considerati “freddi”, sono per
Unamuno fiamme ardenti, ma di Purgatorio, non d’Inferno, che richiamano
la volontà d’espiazione del popolo castigliano, la fede furente e
l’ansia d’eternità che si alimenta nel desiderio di divino. I grigi
cenerei, memori del fuoco più ostinato, e i violenti contrasti e
chiaroscuri, gli stessi che possono incontrarsi nelle pianure
castigliane, parlano tutti di una terra dallo spirito che brucia.
Con questo non si vuol insinuare che l’uomo Theotokopoulos a un certo punto della sua esistenza abbia smesso di essere greco per farsi spagnolo, ma che la sua natura,
se così vogliamo chiamarla, era un po’ greca, un po’ italiana e un
soprattutto spagnola, e questo – è da tener bene in conto – è il
risultato di una vita vissuta, non di un’anima “prestampata”.
Se
l’intuizione di Unamuno è corretta dobbiamo dunque ipotizzare un
matrimonio fortuito e fecondo tra lo spirito di quest’artista e lo
spirito di un paese – come tutti – in continua evoluzione. Da nessuna
parte era scritto che Dominikos Theotokopoulos sarebbe diventato uno dei
massimi esponenti e “custodi” d’un sentimento che – direbbe Tommaso – non gli scorreva nelle vene (o nell’anima).
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